vite “inutili”

Charlie Gard, poi Isaiah Haastrup e ora Alfie Evans: negli ultimi mesi sono tre i casi saliti agli onori delle cronache di bambini malati condannati da un tribunale, contro la volontà dei genitori e ignorando le offerte di assistenza di stimati specialisti, a essere lasciati morire. Nel caso di Alfie senza nemmeno una diagnosi certa e con una sentenza violentissima che definisce “inutile” la sua vita. “Inutile”.
I genitori di Alfie in queste ore stanno ancora lottando coraggiosamente contro quella sentenza e non posso che sperare di cuore che almeno loro riescano a vincere questa battaglia ma, anche andando molto al di là dei singoli casi, la cronaca di questi ultimi tempi impone sempre più una riflessione. Sembra che la logica delle vite “degne” o “non degne” di essere vissute stia entrando sempre più prepotentemente nell’immaginario dominante come una cosa assolutamente normale o addirittura come un segno di “progresso”. Sembra che l’uomo moderno abbia smesso di credere nel proprio valore e sia tornato a inseguire il mito dell’esistenza priva di imperfezioni o, peggio ancora, a pretendere di misurare “l’utilità” di una vita umana. Sembra che la cultura dello scarto stia stravincendo ogni battaglia. E tutto questo è terribilmente triste.