quando ho scoperto la poesia

Il 17 marzo di trent’anni fa mi sono innamorato. Era un sabato pomeriggio e, dentro lo schermo della televisione, un ragazzo di nome Gianni Bugno, con una maglia bianco-rossa, pedalava da solo verso Sanremo. Il fatto è che mentre gli altri ciclisti, solo poche decine di metri dietro di lui, si contorcevano per lo sforzo nel tentativo di raggiungerlo, lui proseguiva elegantissimo e impassibile con lo sguardo fisso verso qualche punto indefinito, quasi indifferente alle variazioni del terreno e a tutto ciò che gli accadeva attorno, con l’aria indecifrabile di chi sta andando altrove rispetto a un traguardo.
Non avevo ancora compiuto dieci anni e il ciclismo lo annusavo praticamente da sempre, ma quel modo di pedalare mi ha folgorato. C’era qualcosa di magico in quel modo di pedalare. Qualcosa di incredibilmente poetico che andava oltre la bicicletta, le corse e tutto quanto il resto, anche se forse questo l’ho capito solo tempo dopo.
Credo di avere passato una vita intera a cercare di ricalcare, in ogni cosa che ho fatto, quel modo di pedalare. Ovviamente senza riuscirci quasi mai, ma va bene così.